Il coraggio di ascoltare

Nathan sembrava correre con il vento eppure era lì, fermo, al centro della stanza. Un divano nuovo ben sistemato, di colore rosso passione, lo separava dalla porta per uscire, per dimenticare. Solo una giacca, stropicciata dalle lacrime della sera prima, lo tratteneva in quel luogo, la stringeva sottobraccio e con essa non voleva lasciare andare via quel “No…”. Perché quando te lo senti dire così, diretto, che quasi ti trafigge il cuore, fa male, spezza un’ala del tuo coraggio.

E pensare che Nathan il coraggio lo aveva conosciuto sin da piccolo. Sin da quando suo padre non ce l’aveva fatta e un mostro glielo aveva strappato via. Già, “il mostro”, come lui lo chiamava per nascondersi dietro il vero nome della malattia, che negli anni non lo aveva mai abbandonato. Quando era piccolo, il ricordo di quel mostro che gli aveva portato via il padre lo aspettava dietro un angolo, quando ritornava a casa, si burlava di lui a scuola, nei momenti più fragili, lo intratteneva nel buio della notte e lo rincorreva nei pensieri più istintivi, quando per caso si affidava alla fantasia. Troppe volte si fermava sotto la pioggia a piangere insieme alle nuvole; ne era certo, anch’esse esprimevano il loro dolore, solo che poi erano più forti e lasciavano trasparire il sole. Chissà, si domandava, a loro chi le ascoltava, chi si prendeva un minuto del suo tempo per farle poi sorridere, chi stava accanto al loro grigiore per farle di nuovo risplendere.

Nei rari momenti che alzava gli occhi al cielo risentiva la voce del padre e l’eco delle parole non dette, quelle non ascoltate e messe in un angolo.

Nathan lo sapeva bene, la vita doveva andare avanti senza rimorsi, senza struggersi l’anima ogni qualvolta passava davanti alla madre per paura di non essere all’altezza di sostituire la figura paterna. Ma lui ce l’aveva messa tutta, si era rimboccato le maniche, poi si era trasferito lontano da casa ed era riuscito a far fiorire l’albero che da troppo tempo era rimasto senz’acqua nel suo giardino deserto.

Aveva passato cinque anni lontano da sua madre. Il “no, oggi non posso”, “faccio tardi, devo andare” e il “ti richiamo io”, senza poi mantenere fede a quelle parole, erano le frasi ricorrenti di Nathan, troppo preso dalla frenesia della quotidianità e forse, per la prima volta, dalla spensieratezza di un ragazzo che inseguiva i suoi obiettivi.

“Mamma, sto per tornare!”. Questo fu il fugace messaggio lasciatole in segreteria. Non spese un minuto del suo tempo per telefonarle, non si curò di controllare se avesse ricevuto una risposta. Se solo avesse saputo che non ci sarebbe più stata alcuna occasione per sentire la sua voce…

Aveva gli occhi fissi sulla parete di casa da almeno cinque minuti, dentro di sé si incolpava per non aver ceduto a nessuno degli inviti di sua madre, Clea. La sua mente rievocava ancora tutti quei dialoghi troppo corti, che non lasciavano spazio alle domande carezzevoli di una madre e alle risposte di sicurezza di un figlio.

Stava parcheggiando sulla ghiaia ben curata quando qualcosa di insolito attirò la sua attenzione. Era vero, da anni non faceva rientro al suo paese natale e non percorreva il viottolo che conduceva alla casa di infanzia, ma la tendina rosa della finestra in cucina che sua madre lasciava sempre scostata quando si trovava in casa era inconfondibile.

Citofonò, a vuoto. Bussò, ma nessuno gli aprì. Il silenzio del vicinato quasi lo spaventava.

Finalmente un uomo uscì dalla casa adiacente. «Scusi», iniziò Nathan, «sa per caso dov’è la signora Clea Ingram?». Lo sguardo perplesso del presunto vicino, non troppo cordiale, lo lasciò interdetto. Rispose: «No… lì non abita nessuna signora Clea Ingram». Il cuore di Nathan scivolò a pezzi piano piano, seguì il suo oblio fino a strapparsi. Sua madre non si trovava più in quella casa.

Se qualcuno non lo riportava alla realtà, probabilmente quel muro bianco avrebbe potuto tingersi di ricordi, di parole non dette, di carezze affrettate, di baci sussurrati e mai dati, di demoni e sorrisi che si spezzavano ogni volta che cadeva la linea telefonica. “No… No…” era il mantra che si susseguiva come una catena di acciaio, era l’eterna condanna che stringeva la sua vita fino a farla rimanere senza respiro, era la viva consapevolezza di chi si era perso tutto per l’ennesima volta, di chi non aveva avuto il coraggio di ascoltare fino in fondo.

«E se in un luogo lontano e sperduto nel tempo fossimo tutti ancorati alla terra, in solitudine?»

Clea, settantacinque anni, pensava questo nella tranquillità del salotto. Era sola. Quello che anni fa era stato il suo più grande amore l’aveva resa vedova a causa di una malattia, mentre il figlio era andato via di casa troppo presto, secondo il suo cuore di mamma. Non le rimaneva che un giardino brulicante di germogli selvatici, ma ben curati, e il susseguirsi delle giornate erano come onde d’urto che la scalfivano dentro.

«E se in un luogo lontano e sperduto nel tempo fossimo tutti più bramosi di occhi che si cercano, di mani che si stringono, senza preconcetti e fretta?»

Clea non ce l’aveva fatta. Portò con sé la sconfitta e forse un po’ l’amaro sapore di non esser riuscita a dire addio al suo pezzo di anima nel mondo: Nathan. Nonostante lui non avesse mai trovato il tempo necessario da dedicarle, lei gli aveva sempre voluto bene e un giorno, ne era sicura, da lassù glielo avrebbe inciso sul cuore.

 

Racconto di Veronica Campana