Il silenzio di Irene

Marta salì con affanno le scale di sotto, col peso delle borse della spesa. Entrata in casa trovò la madre, con in braccio sua figlia Irene. Sedeva in cucina mezza addormentata, mentre la bambina giocherellava e intrecciava i fili della sciarpa che l’anziana portava al collo.

 — Ehi, voi due, poltrone, aiutatemi!

La bambina le corse incontro ridendo, sua madre fece per alzarsi, ma crollò sulla sedia chiudendo gli occhi.

— Mamma, che hai? Oddio! Sarà un infarto. Il telefono, dov’è il mio telefono?

Agitata, scosse la figlia per le spalle.

— Irene, corri a chiamare la vicina al piano di sotto: nonna sta male!

La bambina la guardò e rimase immobile senza dire una parola.

ؙ— Irene, hai capito? — ripeté Marta, mentre continuava a comporre il numero telefonico dell’ospedale.

Irene, confusa, girò le spalle e si avviò al piano di sotto.

“Adesso speriamo che non mi succeda come quando ero a scuola… devo avere il coraggio di parlare. Che ci vuole! Arrivo. Suono e le dico: signora Clara, nonna si è sentita male. Può venire un momento su da noi? Ecco! Sono solo poche parole.”

Quando arrivò davanti alla porta, le tremavano le mani, ma riuscì a spingere il campanello facendolo squillare con insistenza.

La vicina, alquanto indispettita, aprì la porta.

— Irene, che c’è?

Irene avrebbe voluto dirle quello che era accaduto. Le parole erano lì, in fila, pronte da dire, ma dalla sua bocca uscì solo qualcosa di disarticolato e allora, tirando la donna per la gonna, la costrinse a seguirla per le scale.

Marta accolse la vicina, ancora in preda a uno stato di agitazione; le raccontò l’accaduto e disse di essere riuscita a chiamare un’ambulanza.

Mentre aspettavano, Clara guardando Irene considerò con aria affettuosa: — Deve essere molto legata a sua nonna, figurati che non è riuscita a dirmi nemmeno una parola, mi ha solo trascinata qui.

— Si sarà spaventata, povera piccola — disse Marta, accarezzando sua figlia che la guardava smarrita. Quando arrivò l’ambulanza, la donna lasciò Irene con la vicina e seguì sua madre in ospedale.

La sera, quando tornò a casa, era a pezzi. Passò a prendere la bambina da Clara e insieme si misero a letto, ma nessuna delle due riuscì a chiudere occhio.

Marta aveva ottenuto qualche giorno di permesso dal datore di lavoro, intanto si chiedeva a chi avrebbe potuto lasciare la bambina durante la degenza della madre.

“Se prendo una donna a ore, per pagare lei non avrò più denaro a sufficienza per le bollette. Che disdetta! Povera mamma, magari stava male da qualche tempo e non ha detto niente per non farmi preoccupare. Ecco! Il fatto è che non comunichiamo abbastanza con chi abbiamo vicino, dando tutto per scontato… Così anche il mio signor marito. È stanco, dicevo, lavora tutto il giorno e finivamo col cenare in silenzio. Tanto c’era la TV a parlare. E invece lui parlava eccome e faceva anche altro, visto che se ne è andato con quella donna che aspettava un figlio da lui… Calma, non voglio pensare a questo adesso; devo pensare a mia madre e a Irene. Oh, che confusione, che devo fare?”

Anche Irene, sebbene avesse gli occhi chiusi, seguiva i suoi pensieri.

“Oh, Madonnina! Fa’ guarire nonna! Sennò io con chi parlo? Lo sai che mi è difficile con chi non conosco bene. Oh, Madonnina, e domani, se puoi, non farmi interrogare dalla maestra sugli uomini primitivi. Sì, lo so che vivevano nelle caverne. Lo so che hanno scoperto il fuoco, costruito le lance e poi le palafitte. Ho ripetuto tutto a nonna che mi ha detto brava, ma la maestra… quella, quando si aggiusta gli occhiali, mette paura, e poi sembra che voglia sparare, quando col dito cerca chi interrogare. Fa’ star bene nonna, Madonnina. E alla maestra, falle venire almeno un mal di pancia. Ti prego!”

Il giorno dopo Mara accompagnò Irene a scuola e andò a trovare sua madre. La maestra quella mattina ogni tanto tossiva ed era un po’ nervosa, non faceva altro che tamburellare con le dita sulla cattedra. Un silenzio di paura serpeggiò tra i bambini.

— Dunque, dunque, interroghiamo!

Irene ripeteva mentalmente “Gli uomini primitivi vivevano nelle caverne…” quando la maestra puntò il dito e pronunciò il suo nome, si alzò come un automa e raggiunse la cattedra.

— Allora, Irene, parlaci degli uomini primitivi.

Silenzio.

L’aveva ripetuto fino a un minuto prima, le parole giravano nella testa, ma non uscivano dalla bocca. I suoi compagni ridacchiavano. Nessuno era suo amico, neanche Laura, la sua vicina di banco, che la guardava sempre con sufficienza. Tutti la prendevano in giro specie durante la ricreazione. Lei al centro e tutti che la spintonavano facendole cadere la merenda e la insultavano canzonandola. Si era sentita indifesa e le parole erano cominciate a morire, rifiutandosi di venir fuori. Guardando le facce cattive dei suoi compagni sentì che le guance erano bagnate di lacrime. La classe rise ancora di più, facendo stupide battute. Erano tutti insopportabili. Si girò di spalle ai compagni. Sentiva una rabbia dentro che le saliva dentro, ma adesso il suo pubblico era il muro dell’aula e allora avvenne il miracolo. Le parole uscirono tutte, e in che ordine! Nell’aula ci fu silenzio assoluto e alla fine la maestra le disse: — Brava! Hai visto? E che ci voleva?

Irene andò a posto e Laura le offrì svelta le caramelle gelatinose che le piacevano tanto.

Passarono alcuni giorni e Marta non era riuscita a trovare una babysitter che facesse al caso suo. Allora, siccome le avevano rassicurato che sua madre non sarebbe rimasta a lungo in ospedale, pensò: “La mattina c’è la scuola, si tratterebbe di lasciare sola Irene solo per poche ore il pomeriggio. E poi la mia bambina è così tranquilla, dove la metti la trovi: silenziosa, ubbidiente, vale la pena di provarci.”

Quando usciva da casa raccomandava a Irene di non aprire a nessuno e quando tornava la trovava che leggeva ad alta voce i libri di scuola e ripeteva le lezioni. Era proprio una brava bambina. Un giorno non la trovò in cucina, ma seguendo la sua vocina arrivò nella sua cameretta. La sua bambina stava giocando. Che cara! Si avvicinò all’uscio silenziosamente e quello che vide la lasciò nello sconcerto. “Che succede?” si ripeteva inebetita.

Irene aveva messo in fila le sue bambole e i suoi pupazzi e ne stava schiaffeggiando una, la scuoteva e le ripeteva: — Parla, parla! E che ci vuole? Chi sei, la principessa del silenzio? Non fare come me. Hai visto? Anche oggi è successo di nuovo. Davanti alla classe che mi prende in giro, scena muta, poi faccia al muro e le parole escono. Maledette parole e maledetta anche te, che non parli…

La voce alterata di Irene tacque. La bimba si gettò sul letto stringendo la sua bambola mentre i singhiozzi la scuotevano. Marta si avvicinò e la carezzò dolcemente.

— Non aver paura, ci sono io con te.

Quella notte dormirono abbracciate. Si fa per dire, perché Marta non dormiva di certo. Com’era possibile che fosse avvenuto tutto questo? Eppure, tutto sembrava normale. Irene in casa rideva, parlava con lei, con la nonna. Possibile che questo facesse parte di una consuetudine, un’apparenza e che invece la comunicazione tra le persone era qualcosa di diverso. Era colpa sua? Non era per niente soddisfatta del suo ruolo di madre, sempre troppo indaffarata, della sua difficoltà ad esprimere l’affetto che dava per scontato. Tragico errore, l’amore non va dato per scontato, va dimostrato altrimenti e come se non ci fosse. Forse Irene non si era fidata di lei ed era diventata la principessa del silenzio perché non si sentiva amata. Lei, che con la sua fuggevolezza, aveva perso l’unico uomo che aveva amato perché non era mai riuscita a comunicare con lui. La sua bambina… doveva comunicare con la sua bambina, prima che fosse tardi. La mattina stessa andò a parlare con la maestra di Irene che le consigliò di ricorrere a uno psicologo. Da quel giorno Marta non si staccò dalla sua bambina, ridusse il suo orario di lavoro e ne trovò un altro da poter svolgere a casa, quando c’era Irene. Quando andavano dalla dottoressa, Marta e Irene si divertivano a rimirarsi in tutti gli specchi che c’erano nell’anticamera, poi la psicologa restava sola con Irene. Terminata la seduta, la bambina le prendeva la mano e le diceva: — Adesso, mamma, ti racconto una storia. C’era una volta una principessa che viveva nel regno del silenzio, poi una fata buona cercò le voci che si erano nascoste e una alla volta cominciarono a uscire…

 

Racconto di Liliana Tuozzo